L’errore di Selen e la dipendenza: il volto dark del porno

Il primo passo è chiamare le cose con il loro nome. «Il porno? Un errore». Quando Luce Caponegro ha dovuto ammettere davanti al figlio di 10 anni di essere stata una pornostar le parole sono scivolate via chiare e semplici senza sotterfugi, né giustificazioni. Un errore, che ha provocato conseguenze dolorose nell’animo per uscire dalle quali sono serviti molti anni. Luce Caponegro è conosciuta con il nome d’arte di Selen. Negli anni ’90 era una stella, era considerata l’erede di Moana Pozzi e di Ilona Staller. Poi ad un certo punto la decisione di farla finita.

Il Corriere della Sera ha intervistato Luce che oggi vive in Romagna dove fa l’estetista. Un lavoro normale, lontano dai riflettori, ma anche lontano dalla concupiscenza di uomini che l’hanno sempre tratta come oggetto. Nella chiacchierata con il giornalista Valerio Cappelli si intravedono le tracce di un cammino doloroso che tocca i suoi punti più significativi quando parla di quel passato.

«Il porno? Un errore, ci abbiamo messo una vita a rimediare». Il mercato dell’hard? «Si è rivelato un mondo dark, scuro, quasi gotico. Era brutto vedere le ragazze dell’Est costrette al sesso estremo sei ore di seguito per un capriccio del regista, con una scena guadagnavano la paga di un anno a Budapest. Lo squallore, la droga».

La carriera di pornostar? «Gli ultimi tempi sono stati una tortura, la trasgressione era diventata un lavoro odioso. Ho dovuto fare film quando volevo smettere, cercando di costruire ciò che ho sempre desiderato, una famiglia». Che cosa si cela dietro le star a luci rosse, considerate ormai modelli per le giovani generazioni? «Rocco Siffredi era violento».

Pochi flash, che però mostrano l’altra faccia, quella vera, mostruosa, di uno dei mercati più redditizi del pianeta, che annega nel nichilismo più squallido. E che indicano nel pornoattore un ingranaggio schiavo del sistema, dal quale, per dipendenza o per disperazione, spesso non riesce ad uscire. La testimonianza di “Selen” è un pugno in faccia alla cultura edonista e sessodipendente di oggi. Una cultura che, partita dalla liberazione sessuale è arrivata alla schiavitù del sesso sganciato dall’amore.

Un mondo che rende schiavi, non solo i producer, gli attori e chi ci lucra sopra, ma soprattutto i consumer, gli utenti di un mercato che ha cifre da capogrio e che si serve di ragazzi iperconnessi come carne da macello.

I dati dell’Internet Filter Review calcolano oltre 28 mila persone che ogni secondo accedono a materiale hard-core tramite internet, 3 milioni e 75 mila sono i secondi spesi a navigare sui siti a luci rosse – si legge nell’indagine firmata da Benedetta Frigerio.

In Italia le cose non vanno diversamente: la ricerca più recente pubblicata l’anno scorso dal professor Carlo Foresta, dell’Università di Padova, ha rilevato che il 78 per cento dei giovani è un visitatore abituale di siti hard con collegamenti settimanali (63 per cento) e di una o più volte al giorno (8 per cento) e una media di permanenza che raggiunge anche i 30 minuti. Di questi ragazzi il 10 per cento si è dichiarato dipendente».

Ce n’è abbastanza per definire il porno una lussuria antisociale, che, rilasciando dopamina all’atto dello stimolo visivo, conduce alla dipendenza, esattamente come una droga. Gli stessi effetti degli oppiacei e alle droghe psichedeliche come l’Lsd.

Anche gli effetti collaterali sono devastanti: dalla ridotta capacità di amare perché la sessualità diventa in un certo senso “deumanizzata” alle costanti delusioni e frustrazioni, che spingono ad atti violenti dove il partner, concepito come uno strumento, viene abusato. E poi ancora: depressioni, crisi d’astinenza, divorzi. Il porno è una catastrofe che può trascinare con sé tutto: affetti, relazioni, sentimenti. Fino a sprofondare nella disperazione col suicidio.

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Fonte: LaNuovaBQ